GZ: La tua formazione: hai seguito studi che vanno dal fumetto alle tecniche VFX, puoi provare a spiegarci l’evoluzione del tuo interesse verso gli effetti speciali? A livello di didattica, quali differenze fondamentali hai rilevato nel passaggio dall’Italia all’estero?
VO: La mia formazione è stata inizialmente di tipo scientifico e mi ritengo un fisico “fallito” visto che ho tentato la carriera universitaria molti anni fa, cambiando poi idea e spostandomi nell’ambito dello sviluppo software. Ma, nonostante i miei molti impegni, oggi sto recuperando la “formazione perduta”, visto che mi sono iscritto nuovamente all’università per un corso di laurea in astrofisica. E’ sempre fondamentale avere una qualche forma di cultura, in campi differenti, e quella dell’astronomia è sempre stata una delle mie passioni. In realtà la formazione tecnico-scientifica si è sempre sposata perfettamente con l’ambito artistico del mio lavoro. Infatti, dopo il periodo di studi come fisico e i primi approcci come programmatore, mi sono iscritto alla Scuola del Fumetto di Milano e a un corso di Cinema d’animazione in un centro di formazione professionale, sempre a Milano, della durata di tre anni; esperienze grazie alle quali ho acquisito le basi necessarie per iniziare il mio lavoro.
A quei tempi le tecniche digitali (parliamo dei primi anni ’90) e in particolare la computer grafica erano proprio agli albori, ma sono riuscito a mixare le mie abilità di artista 3D con quelle di fumettista, per creare le copertine di molte riviste Marvel – Spider-Man in particolare, l’eroe dei fumetti che preferisco) – editore con cui ho lavorato per alcuni anni. Ho collaborato anche con Walt Disney Italia su alcuni fumetti caratterizzati sempre da un gusto peculiare, in cui la giusta miscela di computer grafica si abbinava perfettamente al disegno tradizionale.
Alle nuove tecniche di Effetti Visivi mi sono avvicinato più di recente, diciamo una decina di anni fa. Ho seguito altri corsi (comunque indispensabili) a Londra e negli Stati Uniti (con il master compositor Steve Wright) che mi hanno fornito la preparazione per affrontare lavori di post produzione cinematografica. Anche in questo caso, le mie conoscenze scientifiche sono state utili (come lo sono tutt’ora) per padroneggiare al meglio sia i software che le metodologie di lavoro.
In Italia, la didattica specifica di alcuni anni fa era quasi esclusivamente indirizzata al mondo del 2D e del disegno/animazione classica; attualmente, sempre più istituti e corsi universitari forniscono numerosi strumenti per imparare e approfondire il settore del 3D. La componente che ancora si ha di più all’estero è la diretta connessione con il mondo del lavoro, che spesso le scuole garantiscono una volta terminato il corso di studi, e talvolta anche nel corso degli stessi.
GZ: Come hai iniziato la tua carriera professionale vera e propria? In Italia hai lavorato anche con Bozzetto Produzione Films, e hai creato la tua azionda Pixel Cartoon: da free lance, in Italia e poi con l’estero quali sono i maggiori pro e i contro?
VO: Come già accennato la mia carriera è iniziata come fumettista e intercalatore 2D, usando le tecniche classiche di animazione e di coloritura. Con Bruno Bozzetto ho collaborato come intercalatore e aiuto animatore su molti spot pubblicitari: purtroppo era già terminato il periodo d’oro dei suoi film d’animazione cult di e quindi ho potuto partecipare solo a produzioni commerciali. Nonostante Milano offrisse molto in quel periodo, ho deciso di provare a creare la mia azienda, la Pixel Cartoon, a Trento, nel 199. All’inizio è stata una sorta di scommessa per vedere se anche da freelance, o come piccola società, si poteva produrre qualcosa di interessante in Trentino e poi espandersi in Italia e all’estero. Dopo tanti anni posso dire che la scommessa è “parzialmente” vinta, nel senso che sono riuscito a ritagliarmi una nicchia di produzione in cui sviluppare commercials, spot, cortometraggi, piccole serie animate e, con un’apertura a 360°, anche sviluppo web e produzione video. Oggi puntiamo essenzialmente sugli effetti visivi, ma l’animazione è sempre stata nel mio cuore e quindi appena possibile ci immergiamo in progetti di varie dimensioni sul 3D, come ad esempio il cortometraggio Mila.
GZ: Puoi provare a spiegare la tua specializzazione di Compositor e VFX artist/3D?
VO: Nel cinema tradizionale (ma in parte anche in quello d’animazione), la figura del compositor è quella che si occupa di assemblare in un’unica immagine una serie di contributi visivi che provengono da varie fonti (come ad esempio il girato di un film, le riprese di un green screen, degli oggetti 3D, ecc.) in modo che il tutto sembri perfettamente integrato. E’ l’ultimo step della post-produzione, e una perfetta procedura di compositing deve risultare “invisibile”. Quindi, in teoria, il complimento migliore che posso aspettarmi di ricevere sarebbe “ma tu cosa hai fatto in questo film, che non si vede niente?” E’ difficilissimo nascondere all’occhio sempre più attento dello spettatore le piccole sfumature della realtà, magari ricreate al computer o mixate con immagini provenienti da decine di fonti diverse. Se si riesce nell’intento, e l’audience non se ne accorge, allora hai davvero fatto un ottimo lavoro.
“VFX artist” poi è un termine più ampio che include tutti coloro che si occupano, ad esempio, di modellare in 3D personaggi e/o oggetti, che creano le texture di ambienti e creature, che animano questi elementi, che simulano esplosioni, movimenti di fluidi e di particelle (e qui una buona base scientifica non guasta, come dicevo prima); elementi che alla fine al compositor tocca, appunto, “assemblare”. Piccola postilla terminologica: attenzione a non confondere quest’ultimo termine con il “composer”, che invece è il musicista che crea le musiche del film!
GZ: Dalle grandi produzioni inglesi a quelle italiane il salto è molto grande? Quali caratteristiche deve sviluppare un aspirante lavoratore all’estero per sperare di farcela? E come pianificare il ritorno perché non si riveli un passo indietro?
VO: Si, il salto è enorme. Anzi, direi che non c’è proprio confronto, soprattutto a livello di budget (elemento che alla fine permette la qualità) e di organizzazione (anche questa elemento basilare). I risultati visivi li sanno produrre anche gli italiani, non a caso nei team in cui ho lavorato a Londra ne ho incontrati tantissimi e di grande bravura. Ma la “fuga di cervelli” c’è anche – e parecchia – nel nostro settore, e un motivo ci sarà… Purtroppo in Italia non ci sono produzioni tali da poter lavorare nella post-produzione con continuità, anche per un fattore produttivo-culturale: quello italiano è spesso un cinema “d’autore”, e come tale di solito non richiede l’utilizzo di particolari effetti visivi.
Per “sfondare” all’estero ci vuole prima di tutto tanta passione, poiché le ore da dedicare alla pratica e il tempo per tenersi sempre aggiornati superano di gran lunga il “classico” orario lavorativo. Solo con un amore sfrenato per questa professione si può sopravvivere. Le scuole estere poi aiutano a inserirsi nel mondo del lavoro quindi un consiglio è di farsi in patria un’infarinatura base iniziale e quindi andare a specializzarsi all’estero. E’ importante conoscere tutta la cosiddetta “filiera”, con le varie figure e i ruoli che compongono un team di lavoro degli effetti visivi, ma ciò che è più richiesto fuori dal nostro Paese pressi le grandi ditte è la specializzazione: non serve sapere di tutto un po’, occorre risultare “fortissimi” in qualcosa, perché spesso i generalisti vengono poco considerati. Lo sono di più nelle piccole ditte, mentre nelle grandi si cerca l’optimum per ogni settore/dipartimento.
Il ritorno a casa è sempre un po’ difficile ma non rappresenta mai un passo indietro: il bagaglio che ci si porta dietro dopo qualche anno di esperienza all’estero costituisce un surplus per realizzare lavori ancora migliori qui in Italia. Esperienza cento volte più importante di un qualunque corso di specializzazione, e che si può mettere a frutto con la consueta pazienza (in Italia ce ne vuole davvero tanta) e dedizione (idem).
GZ: Parliamo di MILA, di cui sei uno dei principali promotori: cosa ti ha conquistato del progetto e come pensi che si potrà valorizzare nel contesto italiano? Potrebbe essere possibile abbinarlo ad altre produzioni nostrane, in un’ottica costante di collaborazione?
Mila mi ha conquistato immediatamente. Cinzia Angelini, la regista, mi presentò il progetto ancora nel 2009 con i primi storyboard e la sceneggiatura, e capii subito che era qualcosa di veramente “speciale”. Il tema innanzitutto, così terribile e attuale, ma rappresentato con dolcezza e molta speranza. Poi, la parte storica e “reale” del film: io sono di Trento, e la collocazione di Mila durante i bombardamenti del 1943 nella mia città rievocavano in me alcuni ricordi tramandatimi dai miei genitori e dai miei nonni. C’erano tutti gli ingredienti giusti per farne un film memorabile, e quindi mi ci sono buttato a capofitto… con tanto entusiasmo, e ben poco tempo libero!, ma sempre con l’energia che Cinzia riesce ad infondere in tutti noi che collaboriamo alla sua creatura. Dopo un primo approccio prevalentemente di tipo organizzativo, ho assunto il ruolo di supervisore agli effetti visivi e la mia ditta, la Pixel Cartoon, custodisce anche il server con tutti i files del film: in pratica, risulta il centro nevralgico di tutta la produzione! Ho assunto poi anche il ruolo di Produttore Esecutivo: pur non essendo proprio il mio “tipo di lavoro”, visto il livello organizzativo che affrontiamo quotidianamente qui a Trento mi è parso giusto assumermi anche quest’onere (che costituisce al contempo un grande onore).
Mi risulta un po’ difficile collocare Mila nel contesto produttivo italiano. I cortometraggi animati d’autore sono merce abbastanza rara ed è quasi impossibile operare un confronto (anzitutto di tipo qualitativo) con analoghi prodotti italiani del passato. Non lo è però immaginarlo abbinato eventualmente a un lungometraggio di produzione nostrana – non necessariamente in animazione – per l’eventuale uscita nelle sale cinematografiche, dopo il tour ai festival. Non è comunque un ipotesi di semplice realizzazione, ma sappiamo che il cortometraggio non ha mercato e quindi per essere distribuito, deve necessariamente ricorrere a espedienti come questi. Vedremo.
GZ: Come ti sembra, anche culturalmente, il panorama italiano? A mio parere manca spesso anche un’abitudine e una consapevolezza verso il linguaggio cinematografico, e nella fattispecie dell’animazione, che in altri contesti (Francia, per esempio) viene coltivato fin dall’infanzia: se molti interessanti idee vengono accantonate, oppure relegate in angoli poco visibili, non è segno evidente di una mancanza di convinzione nelle potenzialità anche economiche del mezzo?
VO: Condivido questi pensieri. Il panorama è abbastanza triste, culturalmente parlando, per quanto riguarda il cinema d’animazione (e forse anche il cinema tradizionale). Malgrado quanto farebbe credere il botteghino, “far ridere” non costituisce l’unica via per il successo, e un piano culturale elevato funge da spinta verso qualcosa che il pubblico accetterebbe ben volentieri, qualora abituato a una maggiore fruizione. In realtà l’audience è sempre più esigente, pretende accuratezza storica, scientifica e la “realtà reale” di tutti i giorni anche nei fumetti e nell’animazione. E questo messaggio proviene anche e soprattutto dai bambini, che in queste ultime generazioni si sono evoluti tantissimo, e richiedono molto di più di ciò che ci aspettavamo noi ai nostri tempi. Il medium ha potenzialità infinite, ancor più del cinema tradizionale; sebbene grazie agli effetti visivi di ultima generazione anche il cinema live ormai possa giovarsi di qualunque aggiunta “irreale” rendedno sempre più labile il confine tra i generi e i linguaggi. Per quanto riguarda l’Italia, c’è ancora qualcuno che fa belle cose, ma sono spesso messi nell’angolino dovendo far fronte a budget di norma ridottissimi.
GZ: Ultimamente numerose associazioni femminili in campo cinematografico (come Women in Animation e The Geena Davies Institute) stanno portando avanti delle campagne per la parità di genere nei media sia a livello professionale che di rappresentazione semantica: in base alla tua esperienza, cosa puoi dirci?
VO: Credo che siano movimenti giusti e dovuti, perché la parità di genere in molti campi è ancora lontana dall’essere realtà. Per mia esperienza personale, sia in Italia che in Gran Bretagna, negli ultimi anni ho visto moltissime figure femminili di alto livello (tantissime in produzione e in dipartimenti artistici, molte meno in campi più tecnici), ma questa è una normale separazione che credo derivi dalle propensioni del genere femminile a dedicarsi più a un settore piuttosto che a un altro. Mai e poi mai ho comunque visto diversità di trattamenti economici, almeno per quanto riguarda la mia esperienza professionale. Nella mia ditta prendiamo spesso stagisti e stagiste da scuole superiori di grafica e animazione e trovo che sempre più le giovani leve stiano dimostrando grande talento e professionalità sia in campo femminile che maschile (anzi, con una lieve preponderanza da parte femminile). Se invece ci spostiamo al settore del techical director o dello sviluppo software, allora la bilancia pende (ancora) verso il genere maschile.
GZ: Sei anche un insegnante: un giudizio sul livello di formazione attuale in Italia nel settore, e quali i limiti rispetto ad altre realtà da te note.
OZ: L’insegnamento di queste materie (VFX, computer grafica ecc.) è ancora agli albori in Italia. Negli USA ESISTONO scuole e istituti di fromazione da ormai un ventennio, i siti web di e-learning sono sempre più frequenti e seguiti (è un modello che comunque anche le università stanno pian piano adottando in tutto il mondo, pure in Italia). La formazione dei ragazzi è accettabile, ma come sempre la vera preparazione è legata all’esperienza e quindi solo chi ha veramente passione e dedizione può raggiungere alti livelli. Questo non è un lavoro come un altro, e i nuovi arrivati devono prima di tutto capire che avranno bisogno di “imparare per tutta la vita”. E’ complesso e faticoso, e non si può perdere nessun treno in quanto la tecnologia e lo sviluppo di nuovi applicativi non si fermano mai: chi resta indietro non può competere con quelli che invece, per passione, continuano a crescere.
Come dicevo, ciò che davvero manca ancora alle scuole italiane è la connessione con il mondo del lavoro. Molte realtà formative britanniche, ad esempio, hanno al loro interno un dipartimento di recruiting (arruolamento) che permette ai migliori studenti di avere accesso diretto al mondo professionale, con segnalazione della scuola alle decine di ditte di VFX e animazione presenti sul territorio inglese. Qui in Italia ovviamente il processo è più complesso (non esiste un vero e proprio “settore”) e a volte questa “selezione” si traduce in autentico sfruttamento degli studenti come manodopera gratuita in produzioni a tutti gli effetti, tra promesse di promozioni ed emolumenti mai mantenute.
GZ: A parte MILA quali altri progetti hai in cantiere?
VO: Attualmente stiamo lavorando ad un film documentario, Samouni Road, di Stefano Savona (Dugong Films) in parte animato e in parte live action, ambientato nella striscia di Gaza, con una innovativa tecnica di realizzazione basata sul 3D. Al momento ne stiamo realizzando la modellazione di personaggi e il rig, che verrà poi completamente ritracciata a mano grazie allo stile unico dell’animatore italiano Simone Massi. Manco a farlo apposta, anche in questo film, come già accadeva per Mila, si parla di guerre e bambini coinvolti loro malgrado negli orrori delle stragi di civili, in questo caso all’interno dell’infinito conflitto israelo-palestinese.
Siamo poi sempre in stretta collaborazione anche con realtà locali e produzione di film nazionali e internazionali girati nella nostra regione grazie ai contributi della Trentino Film Commission, oltreché applicazioni mobile e per exhibit museali, in particolare per il Muse, il museo della scienza che proprio quest’anno ha conquistato un posto fra i 10 musei più visitati d’Italia.
GZ: Sull’esempio di MILA pensi che un tipo siffatto di vasta co-produzione, ovviamente con la possibilità di remunerare i partecipanti, potrebbe portare a una rinascita della produzione indipendente o sarebbe una strada troppo difficile?
VO: Comunque, potrebbe essere una strada. Credo che comunque in futuro anche le più grosse aziende – Disney, Dreamworks, o altre di effetti visivi e non necessariamente solo d’animazione, come le londinesi Double Negative, Cinesite e Framestore – adotteranno sempre di più la politica del remote working, facilitata dalle sempre più sofisticate piattaforme di collaborazione via internet disponibili oggi. La produzione indipendente ovviamente è tutt’altro discorso, ma il collaborative-remote-working è sicuramente un modello da portare avanti, con enormi potenzialità di sviluppo.
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